LA RESISTENZA DELLA  DIVISIONE "ACQUI" A CEFALONIA E  CORFU' NEL SETTEMBRE  DEL 1943 E GLI ECCIDI PERPETRATI DALLA  WEHRMACHT

            The Italian Division "ACQUI" slaughter by Wehrmacht in Cefalonia and Corfu' after september 8th, 1943

di Silvio Lenza

 

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Il Prof. Paolo Paoletti al Convegno di Cefalonia del settembre 2003 (Fotografia di Silvio Lenza)

I traditi di Cefalonia
La vicenda della Divisione Acqui 1943-1944
un libro di Paolo Paoletti

Cefalonia è l’episodio più eclatante e, nonostante i tanti libri e i più numerosi articoli, il meno studiato, del contributo dei militari italiani alla lotta di liberazione nazionale. Allo stesso tempo rientra nel lungo elenco degli orrori della seconda guerra mondiale: lo sterminio di massa degli ebrei e delle altre minoranze etniche e religiose o dei minorati psichici. Qui non vogliamo partecipare alla stesura di una classifica degli orrori, perché ogni olocausto, ogni genocidio, ogni crimine di guerra è un delitto contro l’umanità. Vogliamo qui meditare e ricordare quello che avvenne nell’isola ionica di Cefalonia, dove nel settembre 1943 si assisté al risorgere di un crimine che sembrava estinto: l’eliminazione fisica dei prigionieri di guerra. Lì nell’abbagliante splendore di un pezzo di terra incastonato nello zaffiro del mare Ionio, si ebbe la conferma che l’animale più sanguinario restava sempre l’uomo. A Cefalonia il soldato tedesco riscoprì l’istinto primordiale dell’eliminazione fisica del nemico sconfitto. Nel 1943 lo sterminio sistematico e di massa dei prigionieri di guerra sembrava appartenere al passato, alle epoche “barbariche”, o meglio delle culture precolombiane in genere. Invece solo nell’isola ionica di Cefalonia, si dovette assistere ad uno degli episodi più degradanti nella storia della Wehrmacht.  Ci siamo accorti che a 60 anni dai fatti, restava ancora molto da spiegare su questa strage dai numeri a molte cifre. Soprattutto perché tanti fascicoli custoditi presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e quello della Marina erano stati trascurati o non attentamente vagliati. La scoperta di questa nuova documentazione – centinaia di testimonianze e di documenti mai utilizzati prima – ci ha obbligato ad una rilettura globale di quello che ci era stato lasciato finora. La ricerca archivistica non ha presentato difficoltà di sorta: agli Uffici Storici dell’Esercito e della Marina siamo andati a ritrovare i radiogrammi da e per il Comando Supremo e all’archivio militare di Friburgo quelli da e per il XXII Corpo d’Armata e la 1ª divisione alpina tedesca. Già nei primissimi anni ’90 avevamo trovato in Germania alcuni documenti compromettenti per Gandin, in particolare la sua lettera del 14 settembre al ten. col. Barge, ma, quando in Italia tentammo di pubblicare un articolo, questo ci venne rifiutato. Lo scorso anno abbiamo frugato ancora in quel faldone e in quelli contigui e sono usciti fuori nuovi importanti documenti. A quel punto non restava che prendere atto di quelle novità e riconoscere quelle dolorose verità. Ci siamo accorti di aver corretto travisamenti o errate interpretazioni, più o meno interessati. Alla fine siamo andati alla ricerca degli ultimi testimoni oculari. In questi 60 anni si è scritto che Cefalonia rappresenta il simbolo del sacrificio dei soldati italiani morti nel segno dell’ubbidienza agli ordini, ma tra quei martiri c’è una medaglia d’oro che usurpa questi meriti e che non ha riscattato con la morte davanti al plotone d’esecuzione tutto il male che aveva, forse inconsciamente, causato alla sua divisione. La scelta di fedeltà e lealtà incondizionata al governo legittimo, come nella loro tradizione secolare, è stata ben rappresentata dall’Arma dei Carabinieri (1), dalla Marina, dalla Guardia di Finanza e dall’Artiglieria, che furono compatte da subito nello schierarsi contro i tedeschi, mentre il comandante del presidio, generale Antonio Gandin, andò subito in direzione opposta, trattando con i tedeschi, fino al giorno in cui non venne attaccato. Il generale, che era stato interprete e ufficiale di collegamento con il Comando Supremo germanico, trattò direttamente coi comandanti dell’isola e del Corpo d’Armata tedesco, quindi solo dalla documentazione germanica possiamo sapere il contenuto dei colloqui intercorsi tra i tre. Le sorprese non mancano: per tre volte il gen. Gandin fornì al nemico informazioni diffamatorie sulla sua divisione. Quel che è peggio è che ripeté l’accusa menzognera di insubordinazione nella sua ultima missiva del 14 settembre. In questa lettera Gandin prese una netta distanza tra sé e i suoi soldati, definendoli esplicitamente ribelli al suo ordine di cessione delle armi e potenzialmente capaci di mettere in pericolo il suo comando. La cosa più grave è che queste due falsità il gen. Gandin le ha ripetute più volte a quel nemico, che lui evidentemente non considerava tale, perché in confidenza gli confessava segreti, che non osava raccontare neppure al Comando Supremo italiano! Hitler, senza alcun diritto, si erse a giustiziere di quei militari italiani, che ai suoi occhi non solo erano “traditori”, perché il loro governo aveva chiesto la resa al nemico anglo-americano, ma persino “ribelli”, in quanto non avevano accettato l’ordine di resa dato dal loro generale. Così tedeschi e austriaci della Wehrmacht non videro in quei giovani che si arrendevano dei soldati tutelati dalle leggi internazionali dell’Aja ma dei “banditi”, dei “franchi tiratori”, degli “ammutinati” che meritavano il codice penale di guerra tedesco! Anche in questo caso la retorica e le cicale del politically correct hanno fatto un tale rumore da sovrapporsi a chi aveva timidamente cercato di far vedere che non era tutto oro quello che luccicava. Ci riferiamo proprio alla medaglia d’oro al valor militare data al gen. Antonio Gandin, sulla cui figura fino ad oggi si sono stesi pietosi drappeggi etici per coprire la nuda sostanza della sua azione: non solo non aveva ubbidito ai ripetuti ordini del legittimo governo, ma aveva anche raccontato al nemico falsità tali da far ritenere la divisione come un’accozzaglia di ammutinati, sobillati da alcuni ufficiali. Non si può definire una caratteristica di questa strage il fatto che sia rimasta impunita, perché questa è la norma. Ma semmai colpisce che quest’eccidio di Cefalonia sia noto in Italia e in Grecia, molto meno in Germania e nel resto d’Europa. Sono passati 60 anni dalla vera Katyn (2) della Wehrmacht a Cefalonia, per cui è arrivato il momento di dire la verità alle vittime, che non hanno mai chiesto vendetta ma solo la giustizia o almeno la memoria. Crediamo che oggi la procura di Dortmund, che ha riaperto il caso nel novembre 2001, abbia l’opportunità di rimediare in parte agli errori del passato (l’archiviazione del procuratore Nachtweh del 1969), perché il più grosso crimine di guerra commesso dalla Wehrmacht nella seconda guerra mondiale contro un’unità nemica non rimanga senza un processo. Anche perché la rivista degli alpini “Die Gebirgstruppe” (3) continua a ospitare articoli dove si negano le dimensioni della strage e in pratica si getta fango sulle vittime. Se qualcuno in Germania continuasse a dire “la Wehrmacht non si tocca!”, è arrivato il momento che si ricreda. I primi e gli ultimi criminali di guerra tedeschi in Italia, nel settembre ’43 in Basilicata e Puglia e tra il 30 aprile e il 2 maggio 1945, a Pedescala, in provincia di Vicenza, sono stati i paracadutisti della 1ª divisione. A Cefalonia i criminali furono altre truppe scelte, gli alpini della leggendaria “Edelweiß” e non le SS o le Waffen-SS! Dal punto di vista storico occorre sfatare subito un mito: quello dei presidi italiani lasciati senza ordini. In verità sulle isole della Sardegna, Corsica, Corfù, Cefalonia e Lero gli ordini del Comando Supremo (da qui in avanti CS) arrivarono dopo un silenzio di due giorni ma in tempo utile, cioè l’11 settembre, quando in queste isole la situazione era ancora fluida, tant’è che tutti i comandanti dei presidi citati rimasero fedeli al re e al governo. Solo a Cefalonia il Comando Divisione arrivò ad un accordo di massima per la cessione delle armi, il che dimostra che le scelte delle guarnigioni non dipendevano dal giorno o dall’ora in cui arrivavano gli ordini da Brindisi ma dal comandante che li riceveva. Gandin fu l’unico che scelse di ignorare gli ordini e continuò, per altri tre giorni, a trattare la resa con il nemico: da una prima intesa dell’11 passò a quella del 12 e infine all’accordo di massima della sera del 13 settembre e perfino il 14 settembre, dopo che si era visto sconfessato dalla grande maggioranza dei suoi uomini, continuò a trattare. Dopo decenni di polemiche, persino tra i reduci stessi, con denunce finite in tribunale, tra chi sosteneva che era dovere combattere e chi vantava il diritto di arrendersi, dopo un processo che nel 1957 mandò assolti 27 sopravvissuti, tra ufficiali, sottufficiali e truppa, accusati di rivolta continuata, cospirazione e insubordinazione ma sostanzialmente imputati di aver portato la divisione a combattere contro i tedeschi, ancora non si è sanata la cesura tra questi due schieramenti: chi rivendicava il dovere-diritto di impugnare le armi contro il nemico e chi invece propugnava la resa, come unica via d’uscita da una battaglia persa in partenza. Dopo una ventina di libri, un numero maggiore di opuscoli ed un’infinità di articoli, nel 1998, uscì un ennesimo libro, che prometteva “la vera storia dell’eccidio di Cefalonia”. Oggi dopo che testimoni e protagonisti hanno raccontato la battaglia e il massacro, dopo centinaia di interventi di innumerevoli studiosi, politici e opinionisti, che hanno sentito il bisogno di dire la loro, è arrivato il momento di affidarsi ai documenti, di scoprire i retroscena, le responsabilità dirette e indirette, che emergono dagli stessi. Si è scritto che l’uomo è sempre parziale, che persino l’imparzialità è parziale. Forse l’imparzialità è solo un’illusione ma noi cercheremo ugualmente di essere attenti ai documenti e ai fatti, anche se siamo convinti che occorra leggere dietro gli accadimenti. Perché il compito dello storico è anche la ricostruzione di quello che si cela sotto le apparenze, valutare i documenti, a volte palesemente falsificati, come quelli tedeschi. Abbiamo pensato al titolo “traditi” perché, come abbiamo accennato, quei poveri nostri soldati di Cefalonia furono traditi nove volte, in modo diverso e con la gravità che ognuno riterrà giusto attribuire a tali fatti, secondo la propria coscienza.  In primo luogo i soldati della Acqui furono traditi dagli alleati, i britannici in particolare, che non rispettarono quelle stesse clausole armistiziali che ci avevano imposto, come se i vincitori potessero scegliere se onorarle o meno. Il cosiddetto Documento di Quebec del 18.8.1943, integrativo del testo dell’armistizio corto, recitava: “Predisporre i piani perché al momento opportuno le unità italiane nei Balcani possano marciare verso la costa dove potranno essere trasportate in Italia dalle Nazioni Unite”. Gli alleati si erano impegnati a rimpatriare le nostre truppe e invece non trasferirono in Italia neppure un soldato. Mandarono a Cefalonia, come in molte isole greche missioni militari per promettere ai nostri presidi aiuti in uomini e mezzi, che ebbero luogo solo in alcuni casi. Dunque i soldati della Acqui furono traditi dagli unici che potevano salvare le nostre guarnigioni. Massacrati a 230 miglia da Brindisi, a 10 ore di navigazione dalle nostre coste. Dunque se a Cefalonia avvenne quell’orrido macello, i responsabili non stavano solo lì, a Berlino e Brindisi, ma anche a Malta, al Cairo, Algeri, Londra e Washington. Come spesso accade, ci furono forse più responsabilità politiche che militari. In secondo luogo furono traditi dal loro comandante, il gen Gandin, che nella lettera ai tedeschi del 14 accusò i suoi soldati di ribellione. Furono queste false accuse riferite al gen. Lanz e al col. Barge, poi messe per iscritto da Gandin – non a caso nascoste agli italiani per decenni – a contribuire alla condanna a morte di alcune migliaia di nostri soldati. Razionalmente non riusciamo a trovare un’altra spiegazione all’orrenda infamia commessa da Hitler solo a Cefalonia. Le confidenze fatte ai tedeschi da Gandin e il fatto che l’eccidio di massa dei prigionieri di guerra si concretizzi solo a Cefalonia, sono la riprova che quella fu una decisione presa a seguito delle parole del nostro generale e non della resistenza opposta dalla divisione. Questo ovviamente non attenua minimamente il crimine di Hitler ma offre una risposta logica ad una domanda che i più hanno evitato di porsi: perché solo a Cefalonia? Purtroppo è un fatto che Gandin non solo non obbedì ai ripetuti ordini del governo, non reagendo alle intimidazioni di resa, trattando con i tedeschi, che sapeva di dover considerare nemici, ma alla fine confessò ai tedeschi quello che avrebbe dovuto dire solo al CS: che i soldati si ribellavano al suo ordine. Se c’era stata disubbidienza e ribellione ai suoi ordini solo gli organi competenti italiani ne dovevano essere informati, non Hitler! In terzo luogo i martiri furono “traditi” dal Comando Supremo, che non pretese dagli Alleati l’applicazione del documento di Quebec, per quanto la situazione fosse stata subito giudicata “grave”. Debole con i forti, spietato con gli indifesi. Nella sua logica tutta improntata al sacrificio delle truppe, quando da Cefalonia giunse prima la richiesta di evacuazione, poi quella di aiuti militari, il Comando Supremo rispose “immolatevi”, che la patria non dimenticherà il vostro sacrificio. Il grottesco fu che gli aerei e i soccorsi arrivarono su Cefalonia, quando ormai la guarnigione era stata già annientata. In quarto luogo bisogna dire che i partigiani greci, prima premettero per la lotta, poi quando ricevettero le armi e le munizioni dagli italiani, si defilarono dalla battaglia contro i tedeschi: persero tra i 5 e i 9 uomini in una settimana di battaglia. In contrasto con la cobelligeranza dei partigiani corfioti e la generosità della popolazione cefallonita che dopo il massacro fu sempre a fianco dei nostri soldati. In quinto luogo i martiri furono traditi dai generali del Ministero della Difesa, a Roma, dispensatori di medaglie “politiche”. Un’altra beffa per le vittime della Acqui: i generali di via XX settembre si dimenticarono della promessa fatta ai morituri dal gen. Ambrosio: “ogni vostro sacrificio sarà ricompensato”. Nel 1948 quando il Ministero della Difesa italiano fu chiamato a dare un riconoscimento al valore di 6-9 migliaia di caduti, dispensò solo 15 medaglie d’oro al V.M., mentre ne distribuì 35 per i 335 fucilati delle Fosse Ardeatine. I soldati della Acqui furono meno eroici dei cittadini rastrellati in via delle Quattro Fontane o dei prigionieri politici portati via dal luogo di tortura di via Tasso? Oppure i fucilati dalle SS avevano un peso specifico superiore? Se era tutto sangue versato per la stessa patria, perché tanta disparità di riconoscimenti? Nessuno ci ha ancora spiegato come è potuto accadere che nel 1948 si onorasse con la stessa medaglia d’oro al V.M. la memoria di due ufficiali che si erano comportati in maniera opposta, come il generale Gandin e il colonnello Lusignani: il primo si accordò per la resa dopo 6 giorni di trattative e poi fu costretto a combattere solo perché la sua divisione venne attaccata, mentre il secondo, suo subordinato, si schierò subito contro i tedeschi e contrastò l’inevitabile reazione nemica. In sesto luogo le vittime di Cefalonia furono tradite dai giudici militari americani che al processo di Norimberga condannarono il gen. Hubert Lanz a soli 12 anni di carcere e poi gliene fecero scontare solo 5. In settimo luogo furono traditi anche dal procuratore generale di Stato di Dortmund Nachtweh, che optò per l’archiviazione dopo aver ascoltato 231 testi, di cui due soli greci e due italiani: l’autore di un romanzo su Cefalonia, Marcello Venturi (4) e il cappellano militare don Ghilardini. Alla magistratura tedesca chiediamo che ci dica quali furono i molti responsabili e gli ancor di più esecutori materiali. Poi ci farebbe piacere anche sapere chi furono quei pochi soldati che spararono per aria per non sentirsi sulla coscienza di aver ucciso dei prigionieri di guerra. In ottavo luogo furono traditi dai ministri della Difesa Paolo Emilio Taviani e Gaetano Martino e dal Procuratore Generale Militare di Roma che insabbiarono il fascicolo su Cefalonia, impedendo il processo contro i criminali di guerra tedeschi. Uno dei tanti casi rimasti senza seguito anche dopo il passaggio della pratica alla Procura Militare di Roma. In nono luogo non si può dimenticare la Repubblica italiana che si ricordò di rendere omaggio al sacrificio della Acqui solo nel 1980, con la prima visita del Presidente Sandro Pertini a Cefalonia e successivamente con il Presidente Carlo Azeglio Ciampi, che vi si recò il 1° marzo 2001. Questi sono i “traditori” dei martiri della divisione Acqui. Se poi avesse ragione chi sostiene che l’unica cosa saggia da fare in quelle circostanze era quella di cedere le armi, allora i caduti della Acqui furono traditi da ufficiali ribelli, assolti poi dal Tribunale Militare Territoriale di Roma. Dunque in ogni caso traditi. Martiri decorati o mai riconosciuti, eroi vilipesi o semplicemente ignorati. Dei 12.500 militari della divisione Acqui, a fine guerra ne erano caduti 10.500, più o meno quante sarebbero state le vittime di tutte le rappresaglie naziste contro la popolazione civile italiana tra il settembre 1943 e il maggio 1945. Questo solo dato è sufficiente a farci misurare il reale sacrificio dei 600.000 soldati sorpresi dall’armistizio all’estero. Ciò nonostante, a 60 anni dai fatti, bisogna ancora ripetere che l’epopea della “Acqui”, che pur segnò la prima pagina della Resistenza italiana, continua a non fare notizia. Nonostante l’attenzione dedicata dai media alle visite dei Presidenti della Repubblica Pertini e Ciampi, i morti della Acqui risultano penalizzati rispetto ai partigiani caduti sul suolo italiano. Come non ricordare le parole di Montanelli che parlava di due Resistenze, “una quotata in Borsa come tale, perché avallata dai partiti politici, l’altra esclusa dal listino dei titoli, perché quelli a cui s’intestava (la Patria e la Nazione) erano considerati scaduti” (5). Solo nel 1998 il Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante (6) ammetteva che “per molti anni la straordinaria impresa militare e civile della Acqui è rimasta ai margini della nostra memoria collettiva”. Ai martiri di Cefalonia si sono eretti monumenti e dedicate vie e piazze in tutta Italia, perché gli uomini dell’Acqui provenivano non solo dal Piemonte ma vi erano 67 toscani (7), siciliani, trentini, molti veneti (8), calabresi. Al di là del nome Acqui la divisione accoglieva i figli di tutta Italia e solo meno di un decimo ha rivisto la patria. Noi non vorremmo che nel 2003 si bruciasse la pietà verso questi martiri innalzando altri monumenti, facendo altra retorica o parlando solo dei numeri, enormi, incredibili. Su Cefalonia, dal 1946 ad oggi, si sono riempite migliaia di pagine, senza mai notare che l’ordine di Hitler di non fare prigionieri venne eseguito in toto solo da alcuni comandanti, mentre altri si attennero ad una prima direttiva che imponeva di passare per le armi solo gli ufficiali. Si è anche dimenticato di ricordare il caso di un ufficiale italiano che fu aiutato a fuggire dal comandante e dal vicecomandante di una compagnia di alpini austriaci e di un ufficiale tedesco che ottenne la grazia per gli ultimi morituri. Ma perché quella strage assumesse dimensioni uniche nella storia dell’ultimo secolo fu sufficiente l’ubbidienza all’ordine criminale di Hitler di alcune decine di ufficiali, la maggioranza, e un numero ben maggiore di sottufficiali e soldati. Per cui le eccezioni confermano la regola. Oggi la declassificazione dei documenti dei servizi segreti inglesi ci ha permesso di fare un ulteriore passo in avanti nella ricerca. E queste carte dello Special Operations Executive rendono merito ai nostri soldati più che ai generali dello stato maggiore e dei ministeri. O se si preferisce rende più grandi certi eroi e ne ridimensiona altri. Ma soprattutto ci dice chi fu vero eroe, anche se non ebbe mai un riconoscimento. Come è evidente, non si tratta di dettagli ma di sostanza. Alla fine del 1953 il presidente tedesco Theodor Heuss depose una corona di fiori sul sacrario delle Fosse Ardeatine, nel 2002 il Presidente Rau si è recato a Marzabotto implicitamente chiedendo perdono ai parenti delle vittime della strage. Purtroppo nel 2003 il rappresentante della nazione tedesca non si recherà a Cefalonia insieme al Presidente italiano e a quello greco, per ricordare le vittime dell’odio nazista – perché la memoria è una fiammella che va sempre alimentata – e per celebrare nella pace l’unificazione europea. Un’occasione perduta per le istituzioni. Noi, con questo libro, non pretendiamo di aver trovato la verità assoluta sulla strage: ci siamo limitati ad indagare su alcuni aspetti nascosti, a violare certi silenzi, a dare la nostra lettura della vicenda, cercando di spiegare gli ennesimi ritardi della storiografia. Tutto il materiale documentario utilizzato per questo libro è conservato presso l‘Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (USSME), l’Ufficio Storico della Marina Militare (USMM), il Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo, il Public Record Office di Londra e i National Archives at College Park, vicino a Washington. Ovviamente tra la documentazione italiana abbiamo privilegiato le relazioni fatte a caldo dai reduci nel 1944-1945 e non quelle posteriori. Si vedrà così cosa raccontarono i superstiti della Acqui davanti al servizio segreto SIM/CSDIC e quello che invece hanno poi scritto alcuni di loro, come don Formato, don Ghilardini, Apollonio e Pampaloni, nei decenni successivi nei loro libri. (Paolo Paoletti)

Note
1 I Carabinieri caduti a Cefalonia ebbero due medaglie d’oro (ten. Alfredo Sandulli e s. ten. Orazio Petruccelli), dieci medaglie d’argento e 6 di    bronzo, tutte alla memoria.
2 Katyn è una foresta dove l’NKVD, i servizi segreti di Stalin, fecero fucilare più di 10.000 ufficiali polacchi, attribuendo poi la responsabilità dell’eccidio alla Wehrmacht. L’Unione Sovietica ammise ufficialmente le proprie responsabilità solo nel 1989.
3 Ci riferiamo in particolare agli articoli apparsi su “Die Geburgstruppe”, n.3 del giugno 2001 a cura di Gerhart Klamert, n.5/6 del dicembre 2001 a cura di Gerd R. Meyer e dell’aprile 2002 del d r. Werner Funke.
4 Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, Feltrinelli, Milano, 1963
5 Indro Montanelli, “Corsera”, 6.3.2001.
6 55° Anniversario della resistenza della divisione Acqui a Cefalonia, Camera dei Deputati, Roma, 1998, p.1.
7 Nell’opuscolo “La battaglia della Acqui”, pubblicato dal Comune di Firenze, nel 1973, si elencano i nomi dei fiorentini caduti.
8 In Mario Altarui, Treviso nella Resistenza, Treviso, 1975, p.34.

 

I traditi di Corfù
Quel tragico settembre 1943
un libro di Paolo Paoletti

Con il proclama dell'armistizio dell'8 settembre 1943 i tedeschi si sentirono traditi ma gli Alleati non si fidavano degli ex-nemici. La reazione dei nostri soldati, in particolare quelli sorpresi nei Balcani, fu unanime: chiedere l'imbarco per il ritorno in patria. Ma dopo due giorni di silenzio, gli ordini del Comando Supremo furono di considerare i tedeschi come nemici e di resistere sul luogo. E il col. Lusignani, comandante del 18°reggimento fanteria di stanza a Corfù, non ebbe tentennamenti, diversamente dal suo superiore, il gen. Gandin, a Cefalonia. Corfù respinse il primo tentativo di sbarco tedesco ma dovette cedere sotto il secondo. Il Comando Supremo e l'Aviazione sottovalutarono la situazione critica in cui versò l'isola per una decina di giorni. Gli alleati, che non avevano rispettato gli accordi di Quebec, in cui le Nazioni Unite si impegnavano a sgomberare le truppe italiane nei Balcani, rimasero sorpresi della resistenza dell'isola ed il 20 settembre decisero d'intervenire in soccorso con proprie truppe. Ma la decisione fu tardiva. Il libro è frutto di ricerche archivistiche presso l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito e della Marina Militare, l'archivio militare tedesco di Friburgo e il Public Record Office di Londra. La scoperta di nuovi documenti inediti, soprattutto la relazione del capo della missione militare inglese lanciata sull'isola il 21 settembre, ha imposto una rilettura generale dei fatti. Corfù cadde per una serie di ragioni: perché l'Aviazione italiana non utilizzò l'aeroporto di Corfù, lasciando ai tedeschi il pieno controllo del cielo e del mare, perché l'isola rimase senza rinforzi per 2 settimane e fu vittima del contraddittorio atteggiamento alleato: fino al 17 settembre gli Alleati impedirono l'invio di rinforzi, poi, quando si resero conto che potevano sfruttare la determinazione del presidio italiano per mantenere Corfù in nostre mani, si mossero ma i tedeschi sbarcarono proprio il giorno in cui un generale inglese avrebbe dovuto arrivare per coordinare l'arrivo sull'isola del contingente alleato. Per Hitler anche i soldati di Corfù avrebbero dovuto subire la stessa sorte del presidio di Cefalonia ("nessun prigioniero italiano"), ma il comandante del XXII Corpo d'Armata, gen. Lanz e quelli del comandante della 1adivisione alpina, von Stettner seguirono altre direttive, per cui furono fucilati solo gli ufficiali che si erano opposti con le armi allo sbarco tedesco: in pratica furono passati per le armi “solo” 26 ufficiali.

Prefazione di Eduardo Fiorillo

All’udire Cefalonia, per effetto della mole di lavoro storiografico e delle imprese celebrative, ma ancor più della finzione letteraria e cinematografica che attualizza, romanzandole, le vicissitudini storiche e le rende familiari a un più vasto pubblico, la mente va subito alla divisione Acqui, alla resistenza e all’eccidio dei soldati italiani. La maggiore delle isole ionie è assurta a luogo della memoria. Persino il vacanziere più distratto ben difficilmente mancherà di sostare dinnanzi il monumento ai caduti, presso la Casetta Rossa e la vicina fossa comune. Se appena più volenteroso visiterà di certo la mostra permanente, frutto dell’ impegno di un modesto quanto generoso gruppo di residenti italiani. Corfù al contrario ci parla solo di vacanze in Grecia. Nulla colà, neanche una lapide, rammenta all’ignaro turista le vicende ugualmente drammatiche che coinvolsero i soldati italiani pressoché negli stessi giorni del ’43, susseguenti l’armistizio. Eppure a Corfù si consumò d’un fiato la tragedia, e con essa la beffa, di un gran numero di italiani che pochi giorni prima avevano sperato e creduto che l’incubo della guerra stesse per finire e che sarebbero tornati a casa. Il primo tradimento è dunque quello della memoria. Questo libro è la storia di una battaglia, non delle più decisive per l’esito della seconda guerra mondiale, durata appena 14 giorni, dal 13 al 26 settembre del ’43. La storia e non la semplice cronistoria, poiché l’autore, al quale va senz’altro il merito di avere riaperto un “fascicolo” che era stato chiuso troppo in fretta, stimolando nel contempo altri a fornire in futuro il loro contributo, non si limita a confrontare le fonti onde ricostruire nel modo più veridico le vicende belliche di quei giorni, ma si pone, con chiarezza quasi didascalica, delle domande, ricerca a quei fatti delle cause, scandaglia con imparzialità i comportamenti dei protagonisti. E la prima domanda, dato che di una battaglia si parla, non può che riguardare le forze in campo, ossia chi ebbe a combatterla. E qui subito appare una prima peculiarità: in una guerra che si stava già perpetrando da tempo tra le forze Alleate e quelle dell’Asse, la battaglia di Corfù è combattuta dalle forze tedesche dei tre corpi contro le sole forze italiane di terra di stanza sull’isola, alleate fino a pochi giorni prima e ora divenute nemiche. Per quale ragione, o piuttosto per quali scopi e in seguito a quali errori di valutazione, i circa 5000 soldati del presidio di Corfù furono dal Comando Supremo italiano e da quello alleato, dapprima impegnati militarmente, anziché rimpatriati, e poi sostanzialmente abbandonati al loro destino? Lungi dal fornire una risposta preconfezionata a questa fondamentale domanda, l’autore, avvalendosi quasi unicamente di fonti di prima mano laboriosamente raccolte (fonogrammi, rapporti e testimonianze provenienti dagli archivi militari italiani, tedeschi ed inglesi), le rende fruibili al lettore trasformandole mirabilmente in un puzzle che quest’ultimo avrà il privilegio di comporre. E in verità la sensazione che deriva dalla lettura di questo libro, così come del suo analogo dedicato alle più note vicende di Cefalonia (P. Paoletti, I traditi di Cefalonia, Genova 2003) è quella di un profondo coinvolgimento nell’agonia di tanti uomini che in sì breve lasso di tempo videro mutarsi la speranza di rivedere i propri cari nella consapevolezza di essere stati traditi e consegnati nelle mani di chi considerava piuttosto loro dei traditori e di pugno dal proprio Führer aveva ricevuto l’ordine di non fare prigionieri. Una sensazione prodotta non da artifizi retorici, giacché lo stile espositivo di P. Paoletti è improntato all’essenzialità e al rigore storiografico, ma dall’intrinseca vivida drammaticità dei documenti riportati. In realtà molti dei soldati italiani di Corfù trovarono la morte successivamente alla resa, sotto le bombe alleate. Ultimi in ordine di tempo a pagare lo scotto di un tradimento ancora più grande, quello di chi tre anni prima, da un balcone di Palazzo Venezia, aveva dato il via all’avventura sempre tragica della guerra.

Introduzione

Nel prossimo anniversario che celebrerà i 60 anni dalla strage della “Acqui” a Cefalonia, l’oratore non mancherà di dedicare due parole ai circa 600 tra ufficiali e soldati della stessa divisione caduti a Corfù tra il 13 e il 27 settembre 1943. Ma Cefalonia purtroppo vanta cifre molto più alte e inevitabilmente metterà in secondo piano le povere vittime di Corfù. Siccome la pietà e il ricordo devono andare indistintamente a tutti quelli che combatterono e morirono lontano dal suolo patrio per la stessa causa e con gli stessi ideali, ci siamo sentiti in dovere di fare la stessa ricerca e la stessa rilettura delle vicende del 18° reggimento della divisione “Acqui” a Corfù. Rispetto ai loro colleghi di Cefalonia, il destino per i soldati dislocati a Corfù fu meno sanguinoso, nel senso che qui non ci furono eccidi di massa indiscriminati, ma la loro sorte fu ugualmente tragica, perché altre centinaia di soldati morirono in combattimento, prima sotto le bombe tedesche e poi sotto quelle alleate, sotto quello che oggi si definisce “fuoco amico”. Per i sopravvissuti ci fu quella prigionia, che alcuni di loro aborrivano più della morte, violenta ma istantanea, sul campo di battaglia.
Un’altra differenza fra i difensori di Corfù e tutti gli altri soldati italiani che vennero colti dall’armistizio all’estero è che i primi si vennero a trovare relativamente vicini alla madrepatria. Ciononostante la storiografia italiana ha sempre avuto un atteggiamento assolutorio verso la mancata difesa delle isole, in particolare di Cefalonia e Corfù, come se fosse stato un destino ineluttabile quello di soccombere sotto gli attacchi tedeschi. Se invece si rileggono le carte si vede che la distanza di Corfù dalle coste pugliesi di circa 120 km minore rispetto a quella di Cefalonia, poteva essere sostanziale ai fini del mantenimento dell’isola in mani italiane. In effetti i 370 km di distanza dalle piste pugliesi facevano di Cefalonia un obiettivo irraggiungibile ai nostri caccia-bombardieri, mentre Corfù rientrava nel raggio d’azione dei nostri aerei e a maggior ragione delle nostre navi. L’isola, più vicina della stessa Sardegna alla terraferma italiana liberata, aveva un grosso neo: era divisa dalle coste greche solo da uno stretto braccio di mare. Nella parte nord l’isola distava dalla terraferma non più di un paio di chilometri, per cui Corfù era una portaerei immobilizzata alla mercè delle artiglierie pesanti tedesche. Ma questo grave handicap poteva essere compensato, se ci fosse stato un fermo impegno nel sostenere la resistenza del presidio di Corfù. Corfù era un’isola strategica per tutti i contendenti ma per gli italiani lo era in modo particolare: era importante dal punto di vista militare, come punto di appoggio per il rimpatrio dei militari italiani dai Balcani, e politico, in quanto in quei giorni lo Stato e il Governo italiano si volevano accreditare agli occhi alleati come cobelligeranti a tutti gli effetti.
Invece le carte scoperte negli archivi giustificano il rammarico espresso allora dal comandante del presidio, il col. Luigi Lusignani, il quale ebbe a dire prima della sua fucilazione: “Se ci avessero aiutato, avremmo potuto resistere”.
Come per il libro sulla strage di Cefalonia, non ci siamo soffermati sulle fasi militari delle due battaglie, già trattate da storici italiani (Torsiello, Montanari ecc.) e tedeschi (Schreiber, Fricke). Non ci siamo neppure occupati delle relazioni italo-corfiote, già oggetto degli studi del metropolita di Corfù e Paxos, Methodius¹ e di Kostas Dafnis². Abbiamo, invece, cercato di riflettere sul comportamento dei due comandanti, il gen. Gandin a Cefalonia e il col. Lusignani a Corfù, e sugli aspetti storici delle due vicende. Uno dei motivi che ci hanno spinto a scrivere un libro sul settembre 1943 a Corfù è stato anche il fatto che i documenti ci hanno svelato che la resistenza italiana a Corfù divenne effettivamente disperata per il mancato rispetto degli accordi da parte degli Alleati e per gli errori strategici e tattici del Comando Supremo e dell’Aviazione italiana. Le novità di questa ricerca provengono per lo più da documenti inediti: gli allegati del Diario Storico del Comando Supremo (da qui in avanti DSCS), le testimonianze dei reduci conservate all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e a quello della Marina, gli atti del processo di Norimberga contro il gen. Lanz e il rapporto ufficiale della missione militare inglese “Acheron”, che arrivò a Corfù il 21 settembre 1943.
Le novità che emergono da questa documentazione riguardano vari temi. Una di queste è stata proprio la scoperta delle tardive ma reali intenzioni alleate di fare di Corfù la Lero dell’Adriatico, un’isola dove gli italiani avevano il totale controllo del territorio, godevano delle simpatie della popolazione, potevano mettere a disposizione degli Alleati porti e un aeroporto per lo sbarco dei rinforzi. L’intelligence del col. Lusignani, verosimilmente grazie alle notizie fornite dai partigiani greci, aveva preventivamente indicato gli obiettivi da colpire, aveva persino previsto i tempi e il luogo del secondo sbarco tedesco. L’isola poteva dunque essere mantenuta in nostro possesso ma purtroppo mancò completamente il supporto aereo e, nonostante l’impegno profuso dalla Marina, anche quello navale italiano. Il contrattacco tedesco a Salerno aveva avuto il suo culmine il 13 settembre 1943, giorno del primo fallito tentativo di sbarco a Corfù. Se il 20 settembre Eisenhower, allora Comandante in capo Alleato nel Mediterraneo, ordinò alla missione militare britannica “Acheron” di paracadutarsi su Corfù, è perché credeva di aver ancora tempo per salvare l’isola. Quando gli Alleati si resero conto che la resistenza dell’isola offriva quei requisiti minimali per tentare un loro appoggio concreto e che il rapporto rischio-benefici era diventato accettabile, decisero di intervenire, anche se Corfù non rientrava nei piani delle isole, ove inviare un contingente alleato a supporto di quello italiano. Ma quando Eisenhower decise di imporre agli inglesi di dare il supporto alleato per tenere l’isola, era diventato troppo tardi e noi pagammo per la loro incertezza iniziale. Ma Corfù anche se avesse resistito al secondo tentativo di sbarco tedesco, non avrebbe potuto rimanere in mani italiane senza un costante aiuto alleato.
Risulta invece confermato che Corfù fu un fulgido esempio di dedizione alla patria, compiuta in piena sintonia tra ufficiali, soldati italiani e partigiani e popolazione greca. La ‘riconoscenza’ dell’Italia si manifestò sin dal 1948 con due sole medaglie d’oro alla memoria e una alla bandiera del reggimento.
Le irriverenti parole di Attilio Tamaro, che scriveva: “La resistenza fu impresa disperata ed inutile e in un certo senso anche profondamente ingiusta, perché fatta solo per sentimento di onore, senza forze, senza possibilità di aiuti, alla ventura di Dio e portò alla completa rovina della città e dell’isola, con infinito danno di quei poveri greci, ai quali avevamo, dopo tante sventure loro inferte, il dovere di donare la pace e la sicurezza. Invece i nostri vollero far partecipare all’impresa anche i partigiani di Papas Spiro, perseguitato da noi fino alla vigilia”. Attilio Tamaro avrebbe dunque preferito per Corfù la resa italiana e l’occupazione nazista, senza capire che i partigiani greci avevano scelto, anche se come male minore, la nostra presenza a quella germanica. Che la guerra sia sempre la peggiore delle soluzioni è noto, così pure che in guerra spesso si combatte ad armi impari; altre volte certe imprese sono disperate fin dall’inizio ma a volte lo diventano per ragioni estranee a chi le compie. Tamaro non considerava inoltre che occorreva difendere Corfù anche per salvare le decine di migliaia di militari sbandati che si accalcavano nei porti albanesi. Solo la mancanza di strategia del Comando Supremo e dell’aviazione italiana furono i principali responsabili del fatto che l’isola cadde proprio quando gli Alleati si erano convinti a difenderla.

CEFALONIA 1943 UNA VERITA' INIMMAGINABILE

di Paolo Paoletti

Franco Angeli Editore  Euro 32,00                                                                              

La storiografia italiana della Seconda Guerra Mondiale e' particolarmente gelosa dei propri miti, soprattutto quando sono legati a episodi che hanno colpito in modo indelebile l'immaginario collettivo nazionale. Anche per questo motivo, fino a oggi, la vulgata sul massacro della divisione Acqui, avvenuto sull'isola greca di Cefalonia dopo l'8 settembre 1943 a opera della Wehrmacht, e' stata concorde nel sottolineare l'eroismo dei suoi soldati e dei suoi ufficiali. Onore particolare e' toccato al generale Antonio Gandin, comandante della divisione, che avrebbe prima trattato con i tedeschi per guadagnare tempo in attesa di ordini e poi, quando questi arrivarono, avrebbe aperto le ostilita' contro gli ex-alleati germanici. Dopo una settimana di strenua battaglia, si arrese e fu il primo degli ufficiali fucilati. Partendo dall'assunto che la retorica persuade senza mai dimostrare, il volume offre una rilettura completa della tragedia di Cefalonia, sulla base di una sostanziosa documentazione italiana, tedesca e alleata, inedita e non. Con il ritmo incalzante di un'inchiesta giornalistica, l'autore cerca di far luce sul comportamento ambiguo di Gandin: perche' nonostante gli ordini del Comando Supremo italiano di "considerare i tedeschi nemici" (11 settembre) e di "resistere con le armi alle intimidazioni di disarmo" (12 settembre), il 14 comunicava alla truppa che erano "in corso trattative per ottenere che alla divisione siano lasciate le armi e le relative munizioni...in attesa di imbarcarsi per l'Italia"? Perche' cedette subito ai tedeschi il porto di Argostoli e il nodo strategico di Kardakata, precludendosi il ritorno nell'Italia del Re e concedendo una spiaggia per gli sbarchi germanici? Perche' respinse le offerte di aiuto dell'aviazione inglese sebbene l'isola fosse priva di difesa aerea? Perche' solo a Cefalonia si massacrarono ufficiali e soldati prigionieri? A queste e a molte altre domande il volume cerca di dare una risposta non convenzionale, riesaminando in chiave critica i documenti gia' conosciuti e presentando molte nuove testimonianze, per tratteggiare i contorni di una verita', per alcuni versi, inimmaginabile. (Nota dell'Editore)

Paolo Paoletti, gia' docente di Lingua e Letteratura tedesca ed inglese, oggi ricercatore negli archivi militari, ha pubblicato oltre una ventina di saggi, molti dei quali sui crimini di guerra tedeschi in Italia. Autore "not politically correct", ha pubblicato con il gruppo editoriale Mursia Sant'Anna di Stazzema: una strage impunita, dove indicava l'estraneita' del magg. Walter Reder e indicava il reparto responsabile dell'eccidio. 1944 San Miniato: tutta la verita' sulla strage, dove dimostra che l'eccidio non fu commesso dai tedeschi ma causato da una bomba americana; L'ultima vittoria nazista: le stragi di Pedescala e Setteca'. Nel volume La strage di Fossoli: 12 luglio 1944, dimostrava l'estraneita' del comandante del campo e faceva i nomi dei mandanti e degli esecutori materiali. Ha pubblicato Il delitto Gentile: esecutori e mandanti (2005) dove si fanno i nomi dei veri responsabili politici e si avanza l'ipotesi che il filosofo fosse stato ricattato dai tedeschi, che tenevano prigioniero in Germania il figlio primogenito, per cui Gentile fu costretto a prendere una posizione filonazista e per questo fu eliminato dai GAP. Per la Fratelli Frilli Editori ha pubblicato  I traditi di Corfu',  I traditi di Cefalonia e Il capitano Renzo Apollonio, l'eroe di Cefalonia.

CEFALONIA 1941-1944

UN TRIENNIO DI OCCUPAZIONE

       

Gli Atti del Convegno CEFALONIA 1941-1944 UN TRIENNIO DI OCCUPAZIONE - A destra un momento del Convegno: Alfio Caruso, Clotilde Perrotta, Enzo Orlanducci e Marcello Venturi  (Fotografia di Silvio Lenza)

PREFAZIONE

Il volume raccoglie, in lingua italiana, le relazioni presentate al Convegno Cefalonia 1941‑1944: un triennio d'occupazione. Il contributo della popolazione locale, svoltosi nei giorni 13 e 14 settembre 2003 ad Argostoli, nel quadro delle manifestazioni Cefalonia 2003: isola della pace. Il contributo di questo lavoro, forse, agli scettici potrà apparire del tutto inutile; ai critici per costituzione potrà apparire risibile fatica. Ma per chi è impegnato in prima persona nella difesa dei diritti umani, l'iniziativa è una dichiarazione di fede, una speranza perché l'uomo di domani, anche nelle situazioni di guerra, possa continuare ad essere trattato come uomo e perché barbari conflitti, combattuti in violazione di tutte le leggi della guerra e dell'umanità come avvenne a Cefalonia, non vadano rimossi o archiviati, ma tenuti vivi come insegnamento, come monito, come imperativo categorico: mai più!

Il Convegno si pone quindi come punto di partenza per un momento di riflessione e di stimolo, affinché il ricordo di quel triste periodo non sia soltanto legato alle rituali celebrazioni proprie degli anniversari, ma offra l'opportunità di un ulteriore approfondimento perché Cefalonia non rimanga, come finora è rimasta, un fatto circoscritto all'esperienza di una generazione passata, ma sia valutata nel contesto inseparabile della storia di Grecia, Italia, Germania e non solo. Un obiettivo del Convegno, pertanto, è quello di cercare una risposta alla domanda che scaturisce dalla vicenda stessa e che in molti si pongono da sempre: perché a Cefalonia? Non potevano essere i singoli a dare questa risposta; doveva darla la storia ufficiale, che fino ad oggi non si era mai pronunciata, anzi mostrava di voler rimuovere l'argomento. Dopo sessant'anni era giusto che su punti oscuri o controversi si parlasse con chiarezza. Il Convegno, dunque, ha affrontato per la prima volta, in una sede idonea, un aperto confronto su questa tragedia , su questa pagina dimenticata della nostra recente comune storia. Il volume raccoglie e conserva tutti quegli interventi che, contribuendo direttamente o indirettamente a delineare una visione poliedrica dell'argomento, hanno costituito il fulcro di due intense giornate di lavoro: un risultato che ci rende orgogliosi e che non avremmo raggiunto senza il generoso impegno degli insigni relatori che hanno prestato la loro opera. La nostra gratitudine va in particolare ai "protagonisti": Antonio Sanseverino, Amos Pampaloni e Elio Sfiligoi, che hanno portato al Convegno testimonianza della volontà che spinse centinaia e centinaia tra ufficiali, sottufficiali e soldati italiani ad affrontare un destino che si presentava sotto i più infausti presagi. Dobbiamo ancora riconoscenza a Hermann Frank Meyer, Christoph U. Schminck‑Gustavus e Hans‑Riidiger Minow, che hanno reso pubblico il frutto di una imponente mole di ricerche, con le loro lucide relazioni corredate da un gran numero di note. A pari titolo nominiamo Vanghélis Sakkàtos, Geràsimos Apostolàtos e Spìros Loukàtos, che hanno accolto l'invito, intervenendo con relazioni di alto interesse, ricche di dati e di riferimenti sui contributi di solidarietà e di aiuto fraterno dato dai cittadini di Cefalonia alle truppe italiane. Contributo riconosciuto dall'Ambasciatore d'Italia in Atene, Gianpaolo Cavarai, in occasione della Cerimonia di Commemorazione del 12 settembre 2003: " ... Il Popolo greco sembrava avere già perdonato la disgraziata aggressione.fascista ad una Grecia neutrale e la conseguente guerra fra due popoli e due civiltà, fino allora molto unite. L'aiuto degli abitanti di Cefalonia, a dimostrazione della fratellanza fra i due popoli amici ma temporaneamente in fronti opposti, contribuì a nobilitare quella pagina di storia lontana. Il cammino della memoria deve continuare, come ha più volte sottolineato il Presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, che, accompagnato dal Presidente della Repubblica Ellenica Costantinos Stefanopoulos, rese omaggio ai Caduti della Divisione Acqui in occasione della visita a Cefalonia del 1 ' marzo 2001 ...... In tale occasione il Presidente Ciampi volle ricordare le "tremende sofferenze della popolazione di Cefalonia e di tutta la Grecia, vittima di una guerra di aggressione". Anche il Sottosegretario allo Sviluppo, Alékos Kalafàtis e il Presidente del Consiglio provinciale di Cefalonia ed Itaca, Geràsimos Apostolàtos hanno sottolineato il ponderato e coraggioso comportamento del popolo di Cefalonia in quei tragici giorni del '43. Apostolàtos ha inoltre detto: "molti hanno dimenticato, altri non conoscono questi avvenimenti, io, allora ragazzo, ho visto da vicino la crudeltà di quella guerra. Il popolo greco che ha tanto sofferto, 300 cefalioti vittime dei tedeschi, sa perdonare e mostrare pietà verso quelli che si pentono, ma non dimenticherà mai". Meritano una citazione a parte Marcello Venturi, Alfio Caruso, Luigi Caroppo, Paolo Paoletti, Guido D'Agostino, Massimo Filippini e la giovane ricercatrice, Isabella Insolvibile, che hanno affrontato in chiave critico‑storiografica il tema, ricco di spunti di interesse immediato, ma soprattutto tali, da proporre alle giovani generazioni gli invitanti ideali della ricerca, dell' analisi critica, della ricostruzione storica. Alla Cerimonia di Commemorazione del 12 settembre è intervenuto l'Ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca in Atene, Albert Spiegel, il quale ha pronunciato un discorso, più volte richiamato dai relatori, e del quale proponiamo un ampio stralcio. " ... Non è facile per un rappresentante del Governo tedesco tornare in questi luo ghi sessant'anni dopo i tremendi fatti che qui accaddero. Qui furono commessi dei crimini nel nome della Germania, crimini che significarono morte e dolore per migliaia di uomini. Come ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca, rappresento l'insieme del popolo tedesco, comprese anche le più alte cariche. E’ stato preciso desiderio del Presidente Johannes Rau deporre oggi una corona a suo nome; lui stesso mi ha espresso questo suo desiderio. Mi commuove profondamente incontrare le stesse persone che vissero quei tremendi fatti e vi sopravvissero, che persero amici e parenti e che sopportano questo dolore da sessant'anni. Sento, però, ugualmente una gioia nel constatare che dopo sessant'anni Italiani, Greci e Tedeschi prendono parte insieme a questa commemorazione. Ciò dimostra che i nostri popoli ed i loro governanti hanno capito gli insegnamenti impartiti da questa tremenda guerra. Abbiamo trovato l'unica giusta risposta: creare un'Europa comune, di pace, unendo collaborazione e solidarietà. Questo presume, però, di avere coscienza del nostro passato; solo così si prenderà coscienza degli avvenimenti passati e di ciò che ci hanno insegnato e si eviterà il ripetersi di quegli errori che hanno portato a quei crimini. Per questo motivo considero molto importanti gli incontri di domani e di dopodomani, tra sopravvissuti, storici ed altri studiosi per registrare ed analizzare i tremendi fatti di quel periodo, per una loro maggiore comprensione...". L'intervento dell'Ambasciatore tedesco è stato accolto dagli italiani, presenti alla Cerimonia, con un applauso spontaneo e pieno di speranza, essendo stato interpretato come un segno di disponibilità da parte della Germania a rivisitare le proprie responsabilità nei confronti della storia.  Le parole pronunciate dall'Ambasciatore tedesco devono essere tuttavia oggetto di alcune riflessioni alla luce di taluni comportamenti della Germania di oggi. E cioè:

‑     per 58 anni la Repubblica Federale di Germania, che rivendica di essere l'unico legittimo successore del Deutsches Reich ovvero della Germania nazista, ha negato ogni responsabilità per i misfatti in Grecia e il massacro degli italiani a Cefalonia;

‑     in occasione del 60' anniversario della tragedia di Cefalonia, il rappresentante della Germania Federale, ovvero l'Ambasciatore tedesco in Atene, riconosce che tali crimini di guerra sono stati commessi "in nome della Germania", ma in realtà la Repubblica Federale di Germania non ha mai risarcito i danni derivanti dai crimini commessi dalle truppe regolari tedesche, sia ai greci che ai pochi superstiti della Divisione Acqui, deportati come lavoratori coatti alla pari di 650.000 altri internati militari italiani;

‑   il 12 agosto 2000, la Fondazione "Memoria, Responsabilità e Futuro", istituita dalla Repubblica Federale di Germania, d'intesa con un gruppo d'imprese tedesche ‑ riconosciute le responsabilità naziste ‑ aveva predisposto un programma di indennizzo a favore di quei cittadini di vari Paesi che, durante il regime nazista, furono deportati nei Lager siti in territorio tedesco o occupato da forze germaniche ed avviati al lavoro forzato, subendo trattamenti disumani. Nel 2002 detta Fondazione, attraverso la sua organizzazione partner IOM, escludeva, eccezione fatta per un numero irrisorio (meno di 3.000), tutti gli ex lavoratori coatti italiani, militari e civili, dal programma di indennizzo riconoscendoli, per escluderli, dopo sessant'anni prigionieri di guerra.

Queste brevi riflessioni, necessarie per una completa e corretta conoscenza degli avvenimenti, si richiamano alla filosofia operativa dell'ANRP, da sempre improntata ad una strategia aperta ad ogni sollecitazione verso tutto quanto può contribuire ad un approfondimento e a un riesame, soprattutto al fine di una necessaria chiarificazione delle idee e dei sentimenti che dominano il tempo attuale. Per concludere, la nostra gratitudine si estende all'Associazione culturale italogreca di Cefalonia e Itaca "Mediterraneo" che ha promosso e organizzato, con grande impegno, questo Convegno. In particolare al Presidente Clotilde Perrotta e al suo vice, Bruna De Paula Karabàtos. E grazie alla partecipazione di tanti amici e simpatizzanti, che hanno testimoniato il largo interesse suscitato da questa iniziativa e di cui abbiamo riportato in sintesi gli interventi. Ci interessa sottolineare, per evitare fraintendimenti, che la materia trattata in alcune relazioni è ancora troppo vicina, troppo incandescente, troppo pervasa di passioni, perché possa essere sottratta alla soggettività di chi l'ha vissuta ed essere assunta alla valutazione imparziale dello storico e perché sia lecito trarne giudizi definitivi su fatti e persone, collettivamente e singolarmente considerati. Siamo di fronte ad una seria e complessiva documentazione della quale converrà tener conto, non per farne arma polemica, ma per comprendere umanamente la tragedia, forse unica nella nostra pur agitata comune storia, che gli anni quaranta ha imposto a tanti greci, italiani e tedeschi. Raccogliendo infine l'adesione unanime di tutti gli intervenuti, si è evidenziata la necessità di promuovere iniziative di studio e di ricerca per ricostruire il percorso storico della vicenda. In tale quadro è stata illustrata la proposta dell'istituzione di un Museo quale laboratorio permanente, capace di ottimizzare la fruizione dei materiali e dei documenti che riguardano, in particolare, la Divisione Acqui a Cefalonia e Corfii, impiegandoli per attività rivolte alla costruzione di una cultura ispirata ai valori di pace, di libertà e sicurezza tra i popoli, nel rispetto della tutela internazionale dei diritti umani. Tale laboratorio permanente sulla scorta degli accadimenti vissuti, darà vita a delle summer schools nelle quali esperti e docenti provenienti principalmente dall'Unione Europea e dai paesi rivieraschi del Mediterraneo e del Mar Nero, individueranno gli strumenti utili alla costruzione di un modello europeo ma non eurocentrico di qualità della vita da proporre poi in tutti i paesi del mondo. ( Enzo Orlanducci )

 Storia della guerra di Grecia, Ottobre 1940 - Aprile 1941

 di Mario Cervi

     

BUR-Rizzoli Editore € 8,73

La campagna di Grecia è stata la più italiana tra le campagne della seconda guerra mondiale, perché iniziata dagli italiani e dagli italiani sostenuta fino all’epilogo. Una pagina ingloriosa e sanguinosa, senza neppure i guizzi di grandezza e di successo che, magari sulla scia dell’alleato tedesco, potemmo vantare altrove. L’accoppiata perdente di presunzione e inefficienza, che distinse tutta la condotta italiana della guerra, fu il vero banco di prova del fascismo e delle sue forze armate. Lì, non in Africa o nella Russia Sovietica, il regime che ostentava d’essere guerriero perse la faccia; lì i generali che dopo l’8 settembre si sarebbero ignominiosamente precipitati al molo di Ortona a mare preferendo accodarsi al Re e a Badoglio piuttosto che combattere a fianco delle loro truppe, lasciarono capire di che tempra fossero i vertici dell’esercito. La campagna di Grecia era cominciata da soli 20 giorni e già il duce era costretto a rincuorare con impotenti minacce e vuota retorica un’opinione pubblica sbigottita di fronte a un esercito costretto a ripiegare in disordine e con gravissime perdite in territorio albanese. Doveva essere un blitz; fu una catastrofe di tali proporzioni che fece dire cinicamente a Winston Churchill: "L’ultimo esercito del mondo ha sconfitto il penultimo esercito del mondo". La più grande e imperdonabile responsabilità storica del regime fascista che glorificava la forza delle armi sta nell’avere umiliato l’esercito italiano. Questo libro è un elogio dello sfortunato eroismo del soldato italiano mandato inutilmente a morire e un atto d’accusa nei confronti di comandanti più interessati alla propria carriera che non di affrontare i pericoli di una guerra.

Mario Cervi è nato a Crema nel 1921. Ufficiale di fanteria durante la seconda guerra mondiale, è autore di numerosi saggi e libri di storia.

CEFALONIA 1943, Il coraggio di essere italiani  

di Gian Enrico Rusconi

Eppure gli italiani a Cefalonia non volevano fare né gli eroi né i martiri. Semplicemente dopo l'8 settembre desideravano tornare in patria, a casa  ma in sicurezza. Con le loro armi. I tedeschi, invece, esigono il loro disarmo, come sul territorio nazionale. Il comandante Antonio Gandin, dopo una lunga trattativa, tra disordini e insubordinazioni della truppa, prende la decisione di resistere all'imposizione tedesca. La Acqui si trova in una situazione militare difficilissima, attacca e subisce la vendetta tedesca. Ma perché soldati tedeschi normali, scelti e valorosi (Gebirgsjäger equivalenti agli alpini italiani) si comportano come criminali? Perché con la loro ferocia smentiscono la leggenda della correttezza della Wehrmacht? La ragione è semplice: si sono sentiti traditi. Non è una giustificazione ma una spiegazione soggettiva. Il loro comandante, il generale Hubert Lanz, non è affatto un fanatico nazista. Al contrario è un militare che in altre drammatiche circostanze, in Russia, ha criticato apertamente gli ordini di Hitler, esponendosi ai rimproveri dei suoi superiori. Anche nel suo comportamento a Cefalonia, che nel processo di Norimberga gli costerà una condanna a dodici anni di prigionia, emergono tratti singolari. Il generale tedesco infatti fino all'ultimo vorrebbe evitare lo scontro con gli italiani. Ma, una volta iniziate le ostilità, non sa fermare il massacro ordinato dall'alto («non fate prigionieri»). Credibili o meno che siano le sue giustificazioni, Lanz gioca la sua parte in una tragedia dove si mescolano onore e tradimento, coraggio e simulazione, azzardo e vendetta. Queste passioni soggettive riportano, da parte italiana, all'orgoglio militare e patriottico e da parte tedesca alla sindrome del tradimento. Ma questi sentimenti non esauriscono la trama effettiva del dramma. Per quanto riguarda gli italiani, rinchiudere la vicenda di Cefalonia dentro il codice del patriottismo è un'operazione troppo stretta. Certamente i valori della lealtà istituzionale e della fedeltà al giuramento al re contano molto per gli ufficiali. Ma essi stessi sono divisi su come interpretarli in concreto dopo l'8 settembre. Alcuni arrivano alla soglia della aperta insubordinazione contro il loro comandante, giudicato troppo debole verso le richieste tedesche. Quanto ai semplici soldati, molti si dichiarano disposti a combattere non semplicemente per amor di patria o per obbedienza agli ordini di una lontana e impotente autorità nazionale - ma perché vogliono tornare a casa con sicurezza. Naturalmente anche questo è «onore del soldato». Ma è pur sempre in nome dell'onore, dell'amore di patria e della responsabilità verso la truppa che lo stesso generale comandante Gandin inizialmente negozia con i tedeschi, convinto di poter trattare essi con franchezza e lealtà. Il comandante deve fare anche un'altra scelta: obbedire ai suoi diretti superiori ad Atene che lo invitano di fatto alla resa o al Comando supremo che da Brindisi - tardivamente - invita alla resistenza? Qui entra in gioco anche la valutazione politica. Infatti la scelta di seguire le disposizioni di Brindisi si connota di fatto come «antifascista». Ovviamente nel significato ben circoscritto che il termine «antifascista» ha nel settembre 1943 nell'ambiente militare. Lo stesso governo Badoglio del resto si presenta - innanzitutto agli angloamericani - come «antifascista». Reciprocamente «fascista» è semplicemente chi non riconosce il nuovo governo e sta dalla parte dei tedeschi. É difficile capire se a Cefalonia, in alcuni ufficiali, ci sia un antifascismo politicamente più qualificato. Nel corso della trattativa con i tedeschi, c'è un episodio molto significativo. La mattina del 13 settembre un inviato tedesco ammara con un idrovolante a Cefalonia e invita il generale Gandin a raggiungere in volo Vienna per parlare con Mussolini, che era stato appena liberato dal Gran Sasso. I tedeschi ritengono che il duce lo avrebbe certamente convinto a passare con i tedeschi. Ma Gandin lascia cadere l'invito e si preoccupa invece di avere garanzie più certe per la trattativa in corso per il rimpatrio delle sue truppe. Questo episodio conferma, da un lato, l'immagine che i tedeschi avevano del generale italiano come virtualmente ricuperabile per la loro causa. Ma dall'altro rivela con chiarezza l' effettivo orientamento politico di Gandin. Non sappiamo quanto questo atteggiamento sia motivato da convincimenti personali «antifascisti», dalla fedeltà al re o dalla volontà di non abbandonare i suoi uomini. Verosimilmente è l'insieme di tutti questi motivi. Ma la preoccupazione principale del generale in quelle giornate sono l'atteggiamento polemico di un gruppo di ufficiali e le turbolenze di alcuni reparti. Il comando deve farsi obbedire dai suoi soldati che diventano improvvisamente irrequieti e indisciplinati. Alcuni si scoprono antifascisti in quanto antitedeschi. In seguito alcuni di quelli che sopravviveranno alla battaglia e al massacro, passando attraverso altre dolorose esperienze, presenteranno retrospettivamente il loro atteggiamento e il comportamento della Acqui nel suo insieme come consapevole affermazione di libertà politica e civile, come un atto di democrazia. Ma «democrazia» è un nome estraneo alle migliaia di giovani che resistono ai tedeschi e cadono mitragliati sulle aspre alture dell'isola jonica. La patria che hanno nel cuore e sulle labbra mentre sono abbattuti non è ancora quella democratica che li festeggia oggi dando al loro sacrificio il significato di un passo verso la libertà politica, che essi non immaginavano. Qui incominciano le difficoltà e le controversie interpretative. Nella memoria ufficiale della Repubblica la divisione Acqui a Cefalonia offre l'esempio principale della «resistenza militare» antitedesca, parte integrante, anzi momento iniziale del movimento di liberazione nazionale. È segno di continuità del patriottismo italiano dal Risorgimento alla Resistenza. Questa interpretazione risale già al primo governo dell'Italia liberata (presieduto da Ferruccio Parri) e ha trovato recentemente un nuovo energico impulso da parte del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. «Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento. Quella scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza di un'Italia libera dal fascismo». Queste parole hanno creato consensi ma anche reazioni di segno opposto. Hanno rilanciato una lettura ben diversa (già sostenuta nel passato) dell'intero evento di Cefalonia, presentato come caratterizzato innanzitutto da gravi forme di ribellione che sarebbero state la vera causa dello scontro armato insensato con i tedeschi, che il comandante avrebbe potuto e voluto evitare con opportune trattative. In realtà le due tesi (Cefalonia primo atto della Resistenza o episodio di insensato comportamento militare) sono spesso formulate in modo tale da non far giustizia all'effettivo comportamento del comandante, degli ufficiali e dei soldati della Acqui tra l'8 e il 23 settembre 1943. Vengono sovraccaricate di assunti politici che forzano il dato storico. Diventano un classico caso di esercizio di politica della storia. «Politica della storia» non è da non intendersi semplicisticamente come sinonimo di manipolazione storica, bensì come tentativo di rivendicare un senso politico univoco a situazioni e a scelte storiche che univoche non erano, anche se rimangono significative per la collettività nazionale. In questo senso si è creata una versione ufficiale dell'evento di Cefalonia che tende a minimizzarne i suoi aspetti contraddittori, in nome di valori positivi che sono dichiarati esemplari per i cittadini di oggi. Questa è la versione «canonica», cui si contrappone polemicamente un'altra versione che si basa su assunti politici differenti e su una lettura che si autodefinisce «revisionistica». In questo senso su una nota rivista di storia contemporanea Sergio Romano ha parlato di «Cefalonia, pagina nera della storia militare italiana». Il libro Cefalonia 1943. Quando gli italiani si battono cerca di fare chiarezza anche su questo punto. Esso «rivede» criticamente la versione canonica del comportamento della Acqui, rivisitando i concetti di resistenza militare, di fedeltà istituzionale e i rapporti con dell'ex-alleato tedesco. Appaiono modificati alcuni caratteri della vicenda militare e politica di Cefalonia che tuttavia può rimanere esemplare ancora per noi oggi - sia pure in termini diversi. Sinteticamente si segnalano cinque punti critici.

1) L'obiettivo primario (non solo in senso cronologico) per la Acqui di stanza a Cefalonia, come di tutte le truppe d'oltremare, è il rimpatrio. Si tratta di un'operazione logistica, militare e politica estremamente impegnativa. Essa mette in luce, da un lato, l'impotenza del comando supremo italiano, privo di mezzi sufficienti per attuarla e dall'altro dà piena legittimazione alla trattativa di Gandin. Il rientro in Italia delle truppe d'oltremare è previsto dagli accordi armistiziali con gli anglo-americani ma non è mai stato predisposto in termini operativi, da nessuna parte. Si creano così aspettative che saranno frustrate.

2) L'alternativa iniziale per gli italiani a Cefalonia non è: cedere le armi trattando con i tedeschi oppure non cedere le armi e combattere (come avrebbero affermato gli ufficiali sostenitori dell'immediata lotta antitedesca, in polemica contro la presunta cedevolezza del loro comandante). Il vero dilemma è un altro: il ritorno in patria lo si ottiene con la battaglia aperta o con un negoziato franco e onorevole, come tenta di fare per alcuni giorni il generale Gandin? Si tratta di un negoziato tormentato, che si svolge tra la crescente impazienza (che diventa simulazione) dei tedeschi, la insofferenza (al limite della insubordinazione) di alcuni ufficiali italiani e la turbolenza di alcuni reparti della truppa. Il generale comandante si trova al centro di questo campo di tensioni.

3) Centrale e controversa rimane la questione della vera o presunta «insubordinazione» di alcuni ufficiali, innanzitutto del reggimento di artiglieria. Ma è cruciale per la ricostruzione critica della vicenda. Che si tratti di una «violenta crisi disciplinare» (come dice il primo rapporto ufficiale delle autorità militari del 1945) o di un'autentica «sedizione» (come afferma l'interpretazione revisionista) il vero punto che conta è stabilire se essa abbia condizionato la decisione finale del generale Gandin. E, in via subordinata, se abbia interpretato i sentimenti della maggior parte dei soldati. La nostra tesi è che gli ufficiali intransigenti («irriducibili» o «ribelli» come sono chiamati - benevolmente o con riprovazione - nella storiografia su Cefalonia) si muovono effettivamente sul filo del rasoio della insubordinazione, creano quelli che nella letteratura sono chiamati (anche qui con approvazione o con disapprovazione) i «fatti compiuti» di ostilità contro i tedeschi. Ma è un comportamento comprensibile nella eccezionalità della situazione. Il generale Gandin lo tollera, non perché è debole o succube, ma perché ravvisa in esso la componente estrema di quell'insieme di fattori oggettivi e soggettivi di cui deve tener conto per la decisione finale dello scontro.
 

4) Su questo sfondo si relativizza il valore del cosiddetto «referendum» della truppa, cioè la consultazione di alcuni reparti salutata (a sinistra) come una innovativa «rottura dell'autoritarismo militare», e condannata (a destra) come cedimento demagogico ed episodio di «sovietismo militare». In realtà se si esaminano i pochi materiali testimoniali a disposizione, entrambe le affermazioni appaiono insostenibili. La rapida consultazione di alcuni reparti (nella notte tra il 13 e 14 settembre) è un gesto irrituale da parte di un comandante, sensibile verso i sentimenti della truppa in una situazione eccezionale. Ma la decisione di interrompere le trattative con i tedeschi e di prepararsi all'azione di guerra matura in lui sulla base di altre ragioni.

5) Parliamo infine dei tedeschi e della loro sindrome del tradimento. La questione del tradimento va affrontata tenendo distinte la problematica che riguarda il comportamento del governo Badoglio in generale da quella della condizione specifica di Cefalonia. I soldati italiani sull'isola jonica non intendono lo scioglimento della loro unità d'azione con i tedeschi come un «tradimento», ma piuttosto come una manifestazione di autonomia e di autodifesa. Loro non vogliono fare guerra più a nessuno, ma desiderano tornare a casa in sicurezza. Questo sentimento soggettivamente legittimo entra in collisione con il timore - altrettanto legittimo - dei tedeschi che le isole di Cefalonia e Corfù, prive di difesa, siano esposte ad uno sbarco o anche solo a puntate offensive anglo-americane che metterebbero in pericolo l'intero dispositivo militare tedesco in Grecia e nei Balcani. Questa preoccupazione non sfugge a Gandin e ai suoi stretti collaboratori e spiega la loro disponibilità originaria a lasciare agli ex-alleati le batterie fisse (che del resto erano state loro concesse dai tedeschi) ed anche altre armi pesanti, in cambio di un ordinato rientro in patria. Questa disponibilità però si trasforma in fermezza nella resistenza alle pretese tedesche, quando ci si rende conto che non ci sarà alcun rimpatrio. Tra le truppe tedesche, l'accusa di tradimento diventa licenza di massacro con la diffusione del Führerbefehl, dell'ordine personale di Hitler, del 18 settembre - quindi ad ostilità già iniziate - che ingiunge di «non fare prigionieri italiani a Cefalonia a causa del comportamento insolente e traditore tenuto dal presidio dell'isola». Dopo la guerra, posti di fronte alla responsabilità di avere consentito l'eccidio, tutti gli ufficiali tedeschi presenti a Cefalonia negheranno d'avere trasmesso l'ordine di Hitler che si sarebbe diffuso quindi oralmente al di fuori dei canali dei comandi ufficiali. È una difesa non credibile e grottesca. Rimane l' ultimo motivo - psicologicamente il più importante - che spiega la durezza dello scontro. I tedeschi erano convinti che alla fine gli italiani avrebbero ceduto come avevano fatto in molte altre occasioni. Invece questa volta gli uomini della Acqui a Cefalonia resistono. Sfatano la leggenda che «gli italiani non si battono».

Gian Enrico Rusconi è professore di Storia politica all'Università di Torino. Fra le sue opere: Se cessiamo di essere una nazione; Patria e Repubblica; Capire la Germania; Clausevitz, il prussiano; Germania Italia Europa. Dallo stato di potenza alla "potenza civile".

LEALI RAGAZZI DEL MEDITERRANEO

Cefalonia, Settembre '43: Viaggio nella Memoria

di Pietro Giovanni Liuzzi

          

EDIT@ Editore Euro 9,00

Questo ''quaderno di viaggio'' vuole essere il mio contributo per mantenere vivo il ricordo di quanti hanno affrontato in guerra momenti difficili. In occasione del 60 anniversario dell'eccidio della Divisione di Fanteria da montagna ''Acqui'' il mio Corso d'Accademia decise di recarsi a Cefalonia per onorare con la sua presenza un avvenimento occorso 43 anni addietro e che causo' tanti lutti. Fu allora che conobbi il sergente Giovanni Grassi, ormai ottantenne, ma pieno di vitalita', che si uni' a noi per la cerimonia della commemorazione ai Caduti. Segui' il nostro giro in pullman e, di tanto in tanto, accavallava la sua voce a quella della guida locale  dando indicazioni, a volte con gioia e a volte con tristezza, ma mai con livore, nel rivedere luoghi in cui si verificarono efferatezze o quelli che gli ricordavano momenti felici. Piu' volte, durante la commemorazione dinanzi al monumento ai caduti della Acqui, fu detto '' perdonare ma non dimenticare'' e Lui, il reduce, senza accorgersi dell'importanza della sua presenza tra noi, nel salutarci ci ringrazio' per non aver dimenticato. Rientrato in Italia andai ad incontrarlo per conoscere nei dettagli la sua storia su quei tragici avvenimenti. Ebbi modo di registrare, a piu' riprese, cinque ore di conversazione. Andava a ruota libera, interrompendosi, di tanto in tanto, per la commozione. Poi, per un caso fortuito incontrai il tenente Nicola Ruscigno. Presi subito contatto con lui ed ebbi interessanti informazioni....

Pietro Giovanni Liuzzi, ufficiale dell'Esercito proveniente dall'Accademia Militare di Modena, nel corso della sua carriera ha, tra l'altro, trascorso un lungo periodo all'estero quale rappresentante italiano in un progetto multinazionale. Ha smesso la divisa prima del limite di eta' con il grado di colonnello mantenendo stretti legami con le Forze Armate e saldi i principi dell'etica militare. Civile, reduce dalla deportazione, e' vittima dei rastrellamenti eseguiti dalle truppe tedesche a Castelnuovo Parano (Fr), nei primi giorni del novembre 1943, insieme con i familiari. Subisce in giovane eta' la deportazione al campo Breda di Roma. Qui trascorre un periodo di prigionia sino al giorno della liberazione (giugno 1944 ). Subisce e reca nell'animo le dure prove di chi e'sottoposto all'ingiusto e forzato internamento.

SOPRAVVISSUTO A CEFALONIA

di Mariano Barletta

Mursia Editore, € 17.00

      

              La copertina del libro                 Mariano Barletta qualche anno prima della scomparsa                           Elio Barletta

Mariano Barletta, mio padre; i suoi 15 drammatici mesi di guerra nel 1943-44 in Grecia, da Cefalonia ai monti dell'Acarnania; le memorie che tracciò sul momento ed elaborò in patria; la loro pubblicazione postuma che noi figli realizzammo per contribuire alla tutela della verità storica. A fine 2001, a seguito del risveglio nazionale sull'argomento, grazie soprattutto ai servizi di Mario Pirani sul quotidiano La Repubblica ed all'intervento diretto del Presidente Ciampi – consenziente mio fratello Lucio – sentii l'impegno morale di portare il manoscritto a conoscenza della pubblica opinione. Scrissi a Pirani e, via Internet, a vari di editori. Il primo mi rispose subito, richiedendomi il testo e promettendomi una prefazione. Tra i secondi, il più sollecito fu Dario Venegoni, il webmaster del sito ANPI. Nacque una felice collaborazione diventata salda amicizia: donai all'ANPI i diritti Internet di pubblicazione ed il libro fu installato sul sito nella data significativa del 25 aprile 2001 con il titolo prescelto dall'autore "Fra marosi e nebbie". Da quel momento migliaia e migliaia di navigatori hanno potuto gratuitamente visualizzare e scaricare il testo, nonché le note biografiche sull'autore da me preparate. Parallelamente a tale meravigliosa esperienza, il Gruppo Ugo Mursia Editore, dopo un'attenta analisi del testo durata dieci mesi, si impegnò alla pubblicazione cartacea, avvenuta nel settembre 2003 (proprio quando eravamo ad Argostoli per il 60° anniversario dell'eccidio) con il volume "Sopravvissuto a Cefalonia" recante la stupenda prefazione scritta e donata da Pirani. Entrambi gli avvenimenti editoriali hanno riscosso grande diffusione ed ampi riconoscimenti della stampa nazionale e locale cartacea ed “on line”, non solo per l'originalità della vicenda, ma anche per lo stile semplice, autentico e coinvolgente del racconto, a cui molti hanno dato un valore letterario oltre che documentaristico. Il volume edito da Mursia ha avuto quattro lusinghiere presentazioni non sollecitate da noi di famiglia:

•) nel 2003, Circolo Ufficiali Piazza Plebiscito, Napoli, partecipi l'Avv. Antonio Sanseverino, Presidente dell’Associazione Acqui, il Magg. Gen. Francesco Paolo Spagnuolo, Comandante della ricostituita Divisione Acqui, il prof. Guido D'Agostino, Docente di Storia dell'Univ. Federico II di Napoli, la Sig.ra Eλενι Lιβιδατου, Console Generale di Grecia ;

•) nel 2005:

1) Protomoteca in Campidoglio, Roma, ad opera della prof. Maria Laura Angioni dell'Associazione Storia e Memoria, partecipi Mario Pirani e la scrittrice Rosetta Loi;

2) Sala consiliare Comune di Atripalda ad opera del locale Assessorato alla Cultura, partecipe il prof. Francesco Barra, Docente di Storia dell'Univ. di Salerno;

3) Aula Magna Policlinico Napoli ad opera dell'Assoc. Assistenza Infermi San Camillo.

Circa un anno fa, dal Sig. Angelo Locatelli, figlio di un altro reduce della Acqui – sopravvissuto a quella tragedia, ma poi successivamente morto in Italia – e di una signora greca, nativa di Cefalonia e tutt’ora vivente, ho appreso una notizia emozionante: è ancora in vita e vive tutt’ora fra Spilìa ed Argostoli, la signora Tzoγza Moyσoyph (Gioia Mussurinos), la ragazza che mio padre conobbe ed incontrò nei giorni della battaglia come ricordato alla pagina 164 del libro. Lunedì 22 settembre scorso – a sessantacinque anni esatti dalla strage nella radura dell’ulivo! – un’altra notizia incommensurabilmente bella ci è arrivata da Internet: l’edizione italiana, edita da Mursia, di "Sopravvissuto a Cefalonia" è integralmente presente negli Stati Uniti, nella biblioteca del Congresso di Washington, nella biblioteca pubblica di New York e nelle biblioteche delle Università di Harvard, di Princeton, di Stanford, del Michigan, di Yale.

PRIGIONIERO 589

di Gualtiero Marello

Casa Editrice Espansione Grafica Asti € 14,90

   

"....L’arrivo più emozionante è quello dei resti della Divisione "Acqui" da Cefalonia e da Corfù. Noi sappiamo che a Cefalonia, in modo particolare, le truppe italiane hanno resistito e combattuto per parecchi giorni. Già da Agrinion noi abbiamo assistito ai caroselli aerei di stormi di Stukas, che decollavano da quel campo di aviazione e che continuamente arrivavano e partivano per destinazioni evidentemente di guerra. Assistevamo allora, specie nei viaggi di ritorno, alle spettacola­ri picchiate degli apparecchi, che comparsi al limite dell'oriz­zonte, oltre la linea delle montagne, si precipitavano in basso, nell'urlo delle sirene e nell'impressionante fischio della velo­cità. Ci domandavamo dove erano diretti tanti aerei e da dove provenivano: i greci, che erano ben informati, ci hanno detto appunto della battaglia di Cefalonia. L'arrivo di questi contingenti è preceduto da particolari misure di sicurezza. Sono fatti sgombrare molti locali, sono stese numerose barriere di filo spinato, in modo da separare comple­tamente da noi quasi metà degli alloggiamenti, è predisposto un severissimo servizio di vigilanza armata. I primi scaglioni giungono il pomeriggio verso le 14. Dire l'im­pressione che mi fanno è impossibile. Dire le condizioni in cui si trovano è, per quanto mi sforzi, sempre al di sotto del reale. Scalzi, laceri, per un'altissima percentuale ridotti nel vestiario ai soli calzoncini o alle sole mutandine, macilenti per le soffe­renze e le privazioni di un lungo e periglioso viaggio in mare e per terra, storditi, prostrati, abbruttiti. Parvenza d'uomini, non giovani. Creature colle quali la vita e la morte si divertono, in un gioco tremendo di speranza e di terrore. Creature delle quali la vita s'è dimenticata e a cui, anche se vivi, la morte ha stam­pato in volto gli inconfondibili suoi segni. A centurie sono fatti entrare, squadre di S.S. li scortano. Subito si accasciano al suolo, perché oltre la resistenza non dura; la fame è troppa, la sete una tortura, la stanchezza ed il sonno oltre ogni immagina­zione. Cinquecento, mille, millecinquecento. Non cancellerò mai una tale visione. Abbiamo notizia e con molte accortezze, perché il comunicare con loro è severissimamente vietato, che a Cefalonia oltre 450 ufficiali sono stati trucidati e parecchie migliaia di soldati, da cinque ai settemila, pure fucilati in una terribile, tremenda car­neficina. Quelli che noi vediamo sono i resti della divisione; non tutti i resti, perché una parte è ancora in viaggio ed una parte minima è rimasta nell'isola; sono gli scampati di quelle giornate, in cui la furia scatenata degli alpinjàger ha fatto strage e nel tempo stesso sono gli scampati del naufragio, perché una delle navi, la più grande, su cui sono stati imbarcati, bombardata dagli aerei inglesi, è affondata. Quando si conosceranno appieno i particolari dei fatti di Cefalonia ognuno sosterrà interdetto ed incredulo a tanta barba­rie, oltre e contro tutti i diritti della vita e della morte. Leggo sopra un foglio stampato e destinato come "autentiche parole di fede all'autentico soldato d'Italia" questa testuale frase: "Chi pagherà i morti tedeschi di Cefalonia?". Se è un italiano che ha scritto tale frase, credo che la maledizio­ne di migliaia di madri, di spose, di figli, dovrà perseguitarlo per tutta la vita; pure la maledizione di Dio. Chi pagherà i morti tedeschi di Cefalonia? Forse che non sono state sufficienti tutte le vittime italiane, sparse nei boschi, sui costoni, sugli spiazzi, trucidate e martoriate in nome di una giu­stizia che nessuna legge di guerra può giustificare? Forse che il sangue di migliaia non placa il sangue di poche decine? Io rispondo e chiedo: chi pagherà tanti morti italiani, tanto sangue senza colpa, tanto orrore? Quando le fosse di Cefalonia saranno riscoperte alla pietà ed al pianto ed i miseri resti, anche oltre la vita arsi dalle fiamme distruggitrici, saranno ricomposti nella pace di un onorato e venerato sepolcro; quando ognuno di noi, saranno la madre ed il padre per il figlio, la sposa per lo sposo, il fratello per il fra­tello, potrà liberamente piangere il proprio cordoglio ed il pro­prio strazio sul sacrario comune; quando sarà leggenda il terrore di quei giorni ed i nostri figli ascolteranno da noi che l'ab­biamo vissuta, increduli ed attoniti, la storia dei fucilati della Casa Rossa, la storia dei morti e dei vivi, la storia dei diritti degli uomini, della giustizia proclamata, della libertà rivendica­ta, della civiltà predicata e testimoniata di tanti tumuli e di tante fosse; allora già la storia, la vera storia, avrà compiuto la sua giustizia, Dio avrà pagato le dovute mercedi ai buoni ed ai cat­tivi. Gli uomini possono maledire, odiare, uccidere, in nome di qualsiasi diritto; dopo la morte soltanto Dio giudica chi non è più e chi è sopravvissuto, gli individui ed i popoli, i sacrifici, gli ozi, le dottrine, la sorte degli imperi, la sorte del mondo. Io sono convinto che molta storia d'Italia sia racchiusa nelle ancora incomposte fosse di Cefalonia. La battaglia combattuta su quest'isola non è stata una battaglia organizzata, come altrove. La notizia dell'armistizio ha deter­minato dubbi ed alternative nei comandi; se vi è stata resisten­za, essa è stata parziale, non totalitaria. Difatti vi sono stati pezzi d'artiglieria nostra che hanno sparato contro le nostre truppe; è stata proprio l'artiglieria che non ha voluto piegare senza combattere. E' un fatto che se tutti avessero combattuto, ben dura sarebbe stata la posta per i tedeschi; se, invece di inviare messaggi d'incitamento e di simpatia, gli inglesi o gli americani avessero inviato soltanto qualche aeroplano a neutra­lizzare l'azione distruggitrice e terrificante degli Stukas, i sacri­fici che si sarebbero richiesti ai germanici sarebbero stati enormi. La resistenza di Hero ha parlato molto chiaro, ma a Cefalonia nulla di tutto questo è avvenuto. Promesse ed esortazioni da una parte; Stukas, bombardamenti, morti dall'altra. E' bastato lo sbarco per mezzo di motozattere di un battaglione di caccia­tori di montagna, perché tutta la resistenza ha ceduto e l'isola intera è caduta alla mercé del conquistatore. Non si saprà mai se è stata iniziativa del comandante tedesco o se questi ha agito in conformità ad ordini impartiti. I coman­danti, dal generale della Divisione agli altri ufficiali superiori, che sono caduti in mano tedesca sono stati subito eliminati; gli altri ufficiali a mano a mano riuniti sono stati inviati al plotone d'esecuzione. Io ho visto la lista degli ufficiali fucilati, fornita dalle testimo­nianze degli scampati. La lista non è completa: 257 erano i "certi" sfilati davanti ai fucili mitragliatori. L'elenco è di una sobrietà senza pari; accanto ad ogni nome: fucilato alla Casa Rossa, fucilato presso Parao; fucilato a Passo Kolumi; fucilato a Skala. Qualche notizia: il tenente tal dei tali è andato alla morte cantando, a braccio del compagno, tenente.... Sublime. E del figlio dell'ammiraglio... che serenamente consegnava il suo testamento spirituale al cappellano per il padre e la madre; quell'altro che si preoccupava di assicurare i figli che egli è morto da forte; l'opera del cappellano da cento chiamato, invo­cato, pregato, mentre la morte sovrastava ed il plotone attende­va ed i cinque minuti scadevano. Tutt' attorno molti caduti strin­gevano ancora le mani nell'ultima implorazione, gli occhi all'ultima visione. Sangue dappertutto. Così per i soldati, per le migliaia di soldati. Radunati in gruppi numerosi, anche rifocillati a seconda di alcune notizie e quasi tranquilli sulla sorte, sono avviati a piccoli nuclei. La mitraglia dietro, improvvisamente, alle spalle, li uccideva. Alla fine anche i soldati tedeschi si sono stancati di uccidere. L'eccidio ha avuto termine. Si sostiene che, per gran parte, i cadaveri sono stati cosparsi di benzina e bruciati. Si dice anche che il comandante tedesco è stato richiamato in Germania a rispondere dei fatti. Si dicono molte altre cose, ma la verità non si conoscerà mai. Soltanto i morti potrebbero asserirci molte verità: quei morti abbandonati, che non hanno saputo perché è stato necessario il loro sacrificio, che attendono sotto le brulle zolle il conforto della prece e del pianto, l'amore degli uomini, il segno vivo della Patria. Alcuni ufficiali si sono salvati o perché ricoveratisi in ospedale, o perché fuggiti in montagna, o perché travestitisi da soldati. Non bisogna credere che perché in ospedale, siano stati al sicu­ro; vi sono nomi d'ufficiali prelevati da reparti ospedalieri e scomparsi. Una scomparsa di tale genere e in questi momenti non lascia dubbio alcuno. Soldati ufficiali frammisti ai soldati mi confidano tale loro qua­lifica con un sacro spavento, perché neppure l'aria sappia che sono scampati di Cefalonia. Una percentuale non elevata di truppa con i propri ufficiali ed un'alta percentuale dei medici aderisce ai tedeschi. L'adesione in tali casi non si commenta. La vergogna non è per chi aderisce, ma più che vergogna è ignominia per chi l'adesio­ne offre come patto e come contratto per la vita. La permanenza in campo di questi reparti non è lunga. Dopo 48 ore tutti ripartono per il campo n° 2 dei prigionieri di guerra, costituito nel recinto e nei baracconi della fabbrica di munizioni greca. Gli arrivi continuano giornalmente; in prevalenza sono piccoli gruppi trasportati con gli aerei, da Rodi, Creta e altre isole dell'Egeo. Gli ufficiali sono saliti ad oltre trecento; noi medici, una trentina in tutto, siamo dislocati, insieme con il personale di sanità specializzato, nella caserma dei granatieri, a breve distanza dal campo, caserma occupata dagli alpinjager e dalla compagnia tedesca del Dulag 135. Verso la metà d'ottobre giunge al completo l'ospedale 490 di Agrinion; pochi giorni più tardi, pure al completo, l'ospedale di Corinto. Fra di noi c'è pure il dottor Egidi, proveniente da Cefalonia...."

Mio padre, morto nel 1971, ha vissuto, durante la guerra, un lungo periodo internato in campo di concentramento tedesco, in Grecia. Dalle sue labbra io ed i miei fratelli non ab­biamo mai saputo che cosa successe e come visse quegli anni, il suo era un tacere voluto. Morta mia madre, nel rovistare le cose più in­time da lei lasciate, comparve un diario di prigionia che fu gelosamente nascosto per tanti anni. Era mio padre che scriveva, scrive­va e scriveva in fogli di carta quasi velina con calligrafia minuta e fitta, come se volesse na­scondere lo scritto nello scritto. Sono due anni che leggo, rileggo, traduco, ri­copio al computer, riordino, cancello, ecc. Da un anno il mio pensiero è di pubblicarne un libro. Sarà tutto a mie spese, non importa; saranno poche copie, non importa; i destina­tari saranno i parenti, gli amici, i conoscenti, non importa. La soddisfazione sarà tanta. Soddisfazione di un libro che non è un sem­plice enunciare i fatti, ma è un racconto ricco di riflessioni, di paure, di constatazioni. Nel suo raccontare non lesina condanne ed elogi, sia da parte italiana sia tedesca. I nomi sono veri, sono di chi ha fatto la guerra, sono di chi la guerra non la voleva.

 

 

 

 

 


 

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Ultimo aggiornamento: 05-05-09